Enrico Lombardi
Affacciarsi per Monica Spada
Un fascio di volti esterrefatti, ritagliati come in un'icona di Bisanzio, teste profilate d'egizia memoria, guarda con occhi giganti dalla stessa parte. Finzione nella finzione, domanda nella domanda. Dove e cosa guarda quello stormo di teste? Guarda mentre è guardato guardare. Emblema dell'atto stesso del guardare, cortocircuitato nello sguardo dello spettatore, confessa teneramente la propria vocazione poetica, che, forse, è quella di tutti i pittori: affacciarsi. Affacciarsi sul mondo, anche se solo per brevi folgoranti attimi di veggenza; sporgersi in quell'altrove che siamo noi sempre nell'irruzione dell'abbandono. Perché il pittore autentico non resta mai impantanato nelle sabbie mobili del sé per confermarsi in una pietosa e patetica scena di falsi riconoscimenti, ma si fa da parte, con la dolcezza di un petalo che cade, perché ad ognuno sia dato il privilegio di potersi affacciare.
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Certo la modernità ci ha consegnato, perfettamente compiuta, la catastrofe dello sguardo come dono. Gli artisti si sono sentiti obbligati per la strada più facile e banale, quella del racconto del sé. La cecità vera, brulicante di immagini insensate, si è impossessata della scena e ,come nell'osceno racconto di Saramago, solo il brutto e il patologico hanno trovato asilo. Quell'affacciarsi che, per secoli, ha reso visibile il mondo costituendolo, si è rovesciato nella propria caricatura psicanalitica e, nell'orrenda nemesi, l'oro di Bisanzio si è trasformato nel buio lutulento del pozzo dell'essere. Perché anche qui ci si affaccia, certamente!, ma solo sullo specchio che riflette autisticamente il nostro stesso affacciarci. In questo modo, in realtà, non accade mai nulla. Affacciati su noi stessi riproduciamo il buio del mondo. Niente doni. Niente tesori di giardini immaginati e resi veri. Solo il moloch del nostro orrore narcisistico che ha desertificato il pianeta e che lo sta uccidendo, negandone il senso e l'alterità radicale.Ma tu hai ancora la purezza di chi si affaccia in modo naturale, con un gesto primario e irrinunciabile, sapendo che la soglia ci cambia per sempre e in essa accade tutto quello che la violenza compulsiva dei gesti non produce mai. Il tuo è un affacciarsi garbato e silente. E i luoghi si fanno da soli. Si mostrano alla nostra gratitudine e al nostro stupore originario senza alcuna fatica, senza ingombri soggettivi, senza pattume egotistico, freschi di sogno e verità comune. Per questo sento il tuo affacciarti come nostro. E occorrerebbe che chi guarda i tuoi luoghi e le tue figure non si ponesse mai il problema di cosa sta guardando, ma di come lo fa e si domandasse se il suo sguardo è abbastanza pulito per poter percepire qualcosa del fuori che gli hai reso possibile e non solo il rumore sordo delle proprie aspettative e del proprio giudicare. Occorrerebbe un po' di silenzio vero. E spogliare lo sguardo di tutte le incrostazioni che anni di equivoci ideologici hanno depositato come guano sulla nostra possibilità di vedere, sino a comprometterne la capacità. E stesse appoggiato sul davanzale della propria anima godendo il fresco di una primavera inattesa, di una nuova stagione di colore, di un desiderio rinato e consapevole. Affacciato.In ere remote restavi affacciata a nuclei formali originari che trasformavi in abbracci.Viluppi di corpi indistinti. Presi in un atto d'amore che era pura accettazione dell'altro. Gratitudine cosmica. Nessuna razza padrona, nessuna logica guerriera, solo uno sciogliersi dentro l'abbraccio, testimonianza della più alta accoglienza. Quasi poesia civile oggi, in un mondo in cui la rozzezza della più stolida pastoia identitaria, riproduce quotidianamente orrori che non avremmo più voluto vedere. La bellezza dei tuoi abbracci, laici e libertari, ci redime almeno un poco da questa antropofagia diffusa e camuffata. Mostri soli e incarogniti, laidi, egoisti, gretti e terrorizzati, distolgono lo sguardo dalla cristallina verità dell'abbraccio. Una cenere nera e spessa e oleosa incolla i loro sguardi impotenti. Ma tu hai levigato con santa pazienza quei corpi improbabili, venuti da chissà dove, e li hai uniti in un abbraccio che nessun male potrà più sciogliere. E qui sta la differenza.Poi è come tornato un turbinoso vento d'infanzia che ha popolato le terrazze d'improbabili giochi. Macchine senza costrutto e senza senso, ma così piene di grazia e gioiosa onirica inutilità. A lungo ti eri affacciata nelle stanze dell'anima del mondo. Tutte spigoli e archi e fughe impossibili. Raccolta come in preghiera in vani monacali deserti e pieni di echi, in tutto un riverbero di luci e toni perfettamente musicali. Dalle stanze sono nate altre stanze, dalle aperture altre aperture, dai giochi altri giochi. Fino a che hai scelto di stare affacciata per sempre dal tuo terrazzo sul mondo. Luogo di perfetta contemplazione e stasi. Non più dentro, né fuori, ancora dentro e completamente fuori. Soglia nella soglia, il terrazzo ti rende partecipe nella sua giusta, incolmabile distanza. Come uno starci dentro, ma con un piede fuori, per poter meglio vedere, per poter levare il canto di una malinconia senza oggetto, di una nostalgia puramente spaziale. Di fronte sempre un mondo lavato e semplice, di francescana purezza: una riga di mare vibrante, una spiaggia bianca e deserta – in cui i rari oggetti spiccano di monumentale solitudine-, una fascia di colline lontane. Ma il luogo dove hai deciso di stare è segnato dalla presenza, quasi giapponese e liturgica, di un cuscino, un divano, un letto. La cosa è detta. Come dentro scatole cinesi. Di nuovo la grande metafora dello sguardo e della pittura. Stare affacciati.Non riesco a pensare la pittura senza desiderio , senza ossessione e non sono mai stato interessato ai virtuosismi tecnici, alle furbizie concettuali , ai trucchetti stilistici, alle scappatoie illustrative. Vedo solo la verità dell'artista vero che si forma per una improrogabile necessità interiore di sciogliere , attraverso la forma, la propria relazione col mondo. Per questo ho sempre visto ciò che hai avuto la grazia di mostrarmi. La tua pittura è fatta di tutto il bello della pittura: onestà, chiarezza, verità, desiderio, ossessione, ripetizione differente. Nessuna tentazione retorica. Solo un viaggio fatto da ferma, affacciata, dal tuo terrazzo sul mondo. E anch'io mi sono trovato spesso a pensare e desiderare di essere lì, in quel silenzio, su quella sabbia bianca, dentro quella stagione infinita di ozio e contemplazione. Meditazione.Non basteranno i giorni. La pietra sarà consumata dallo sguardo ininterrotto. Ma il luogo del nostro desiderio tornerà sempre fuori, come una gioia o come una condanna, a ricordarci chi siamo. Foss'anche nella breve lucidità di un sogno mattutino, che tra un istante sarà dimenticato, o nell'eternità di una tela dipinta che nessun risveglio mai ci potrà rubare.
Enrico Lombardi Marzo 2010
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Certo la modernità ci ha consegnato, perfettamente compiuta, la catastrofe dello sguardo come dono. Gli artisti si sono sentiti obbligati per la strada più facile e banale, quella del racconto del sé. La cecità vera, brulicante di immagini insensate, si è impossessata della scena e ,come nell'osceno racconto di Saramago, solo il brutto e il patologico hanno trovato asilo. Quell'affacciarsi che, per secoli, ha reso visibile il mondo costituendolo, si è rovesciato nella propria caricatura psicanalitica e, nell'orrenda nemesi, l'oro di Bisanzio si è trasformato nel buio lutulento del pozzo dell'essere. Perché anche qui ci si affaccia, certamente!, ma solo sullo specchio che riflette autisticamente il nostro stesso affacciarci. In questo modo, in realtà, non accade mai nulla. Affacciati su noi stessi riproduciamo il buio del mondo. Niente doni. Niente tesori di giardini immaginati e resi veri. Solo il moloch del nostro orrore narcisistico che ha desertificato il pianeta e che lo sta uccidendo, negandone il senso e l'alterità radicale.Ma tu hai ancora la purezza di chi si affaccia in modo naturale, con un gesto primario e irrinunciabile, sapendo che la soglia ci cambia per sempre e in essa accade tutto quello che la violenza compulsiva dei gesti non produce mai. Il tuo è un affacciarsi garbato e silente. E i luoghi si fanno da soli. Si mostrano alla nostra gratitudine e al nostro stupore originario senza alcuna fatica, senza ingombri soggettivi, senza pattume egotistico, freschi di sogno e verità comune. Per questo sento il tuo affacciarti come nostro. E occorrerebbe che chi guarda i tuoi luoghi e le tue figure non si ponesse mai il problema di cosa sta guardando, ma di come lo fa e si domandasse se il suo sguardo è abbastanza pulito per poter percepire qualcosa del fuori che gli hai reso possibile e non solo il rumore sordo delle proprie aspettative e del proprio giudicare. Occorrerebbe un po' di silenzio vero. E spogliare lo sguardo di tutte le incrostazioni che anni di equivoci ideologici hanno depositato come guano sulla nostra possibilità di vedere, sino a comprometterne la capacità. E stesse appoggiato sul davanzale della propria anima godendo il fresco di una primavera inattesa, di una nuova stagione di colore, di un desiderio rinato e consapevole. Affacciato.In ere remote restavi affacciata a nuclei formali originari che trasformavi in abbracci.Viluppi di corpi indistinti. Presi in un atto d'amore che era pura accettazione dell'altro. Gratitudine cosmica. Nessuna razza padrona, nessuna logica guerriera, solo uno sciogliersi dentro l'abbraccio, testimonianza della più alta accoglienza. Quasi poesia civile oggi, in un mondo in cui la rozzezza della più stolida pastoia identitaria, riproduce quotidianamente orrori che non avremmo più voluto vedere. La bellezza dei tuoi abbracci, laici e libertari, ci redime almeno un poco da questa antropofagia diffusa e camuffata. Mostri soli e incarogniti, laidi, egoisti, gretti e terrorizzati, distolgono lo sguardo dalla cristallina verità dell'abbraccio. Una cenere nera e spessa e oleosa incolla i loro sguardi impotenti. Ma tu hai levigato con santa pazienza quei corpi improbabili, venuti da chissà dove, e li hai uniti in un abbraccio che nessun male potrà più sciogliere. E qui sta la differenza.Poi è come tornato un turbinoso vento d'infanzia che ha popolato le terrazze d'improbabili giochi. Macchine senza costrutto e senza senso, ma così piene di grazia e gioiosa onirica inutilità. A lungo ti eri affacciata nelle stanze dell'anima del mondo. Tutte spigoli e archi e fughe impossibili. Raccolta come in preghiera in vani monacali deserti e pieni di echi, in tutto un riverbero di luci e toni perfettamente musicali. Dalle stanze sono nate altre stanze, dalle aperture altre aperture, dai giochi altri giochi. Fino a che hai scelto di stare affacciata per sempre dal tuo terrazzo sul mondo. Luogo di perfetta contemplazione e stasi. Non più dentro, né fuori, ancora dentro e completamente fuori. Soglia nella soglia, il terrazzo ti rende partecipe nella sua giusta, incolmabile distanza. Come uno starci dentro, ma con un piede fuori, per poter meglio vedere, per poter levare il canto di una malinconia senza oggetto, di una nostalgia puramente spaziale. Di fronte sempre un mondo lavato e semplice, di francescana purezza: una riga di mare vibrante, una spiaggia bianca e deserta – in cui i rari oggetti spiccano di monumentale solitudine-, una fascia di colline lontane. Ma il luogo dove hai deciso di stare è segnato dalla presenza, quasi giapponese e liturgica, di un cuscino, un divano, un letto. La cosa è detta. Come dentro scatole cinesi. Di nuovo la grande metafora dello sguardo e della pittura. Stare affacciati.Non riesco a pensare la pittura senza desiderio , senza ossessione e non sono mai stato interessato ai virtuosismi tecnici, alle furbizie concettuali , ai trucchetti stilistici, alle scappatoie illustrative. Vedo solo la verità dell'artista vero che si forma per una improrogabile necessità interiore di sciogliere , attraverso la forma, la propria relazione col mondo. Per questo ho sempre visto ciò che hai avuto la grazia di mostrarmi. La tua pittura è fatta di tutto il bello della pittura: onestà, chiarezza, verità, desiderio, ossessione, ripetizione differente. Nessuna tentazione retorica. Solo un viaggio fatto da ferma, affacciata, dal tuo terrazzo sul mondo. E anch'io mi sono trovato spesso a pensare e desiderare di essere lì, in quel silenzio, su quella sabbia bianca, dentro quella stagione infinita di ozio e contemplazione. Meditazione.Non basteranno i giorni. La pietra sarà consumata dallo sguardo ininterrotto. Ma il luogo del nostro desiderio tornerà sempre fuori, come una gioia o come una condanna, a ricordarci chi siamo. Foss'anche nella breve lucidità di un sogno mattutino, che tra un istante sarà dimenticato, o nell'eternità di una tela dipinta che nessun risveglio mai ci potrà rubare.
Enrico Lombardi Marzo 2010