Francesco Giardinazzo
l'oracolo delfico e l'angelo 1999

In principio c'è l'isola su cui nacque il dio, terra in mezzo al mare. Narrano i poeti che Apollo fissò sulla terra, nella terra più lontana, tra gli Iperborei, la propria dimora: «al di là del mare intero, sino ai termini della terra e alle sorgenti della notte e ai dispiegamenti del cielo e all'antico giardino di Febo»1. Lasciò che a Delfi si rivolgessero i mortali per la soluzione delle “più grandi questioni” (Bacchilide 3, 61-62). Apollo è signore di quell'oracolo la cui voce, secondo il detto di Eraclito, non nega e non afferma, ma «parla attraverso i segni» (semainei)2. Il suo logos è simbolo del mondo. Dalle profondità della terra sgorga la voce del dio. Quella di Monica Spada è una pittura degli spazi iperborei che si fa fidente in questa ombra mitica. Nasce all'ombra del dio delfico, è presagio e lontananza. La sua è una pittura ctonia. Come l'oracolo del dio, essa risale dalla terra, fra le rime rocciose e si fa senso.


prosegui la lettura


Il simbolo è tornato innocente. Per farsi innocente ha dovuto attraversare il deserto del tempo e della storia, tornare indietro verso la propria origine in questo avanzare. Siamo giunti alla fine del tempo: l'angelo di Klee (è una celebre pagina di Benjamin) rivolge il proprio volto verso la tempesta paradisiaca che sostiene le sue ali e accumula macerie (Trümmer) ai suoi piedi. Noi siamo ai suoi piedi, costruttori di macerie. Il dio di Delfi non può salvarci. L'enigma apollineo si è riversato nello sguardo dell'angelo, nelle sue parole. E' un passaggio fondamentale. Gli dèi, dice Hölderlin, ci hanno abbandonato. Vicino e inafferrabile è il dio, risponde Rilke. Ma nell'orizzonte mondano la visione di Hölderlin è proprio quello sguardo rivolto all'indietro. Vicinanza e inafferrabilità descrivono i caratteri del divino e dell'enigmatico del suo senso, della sua presenza. E la parola del dio è simbolica: l'enigma è la sua immagine. Nella fiammeggiante coscienza ebraica (l'altro polo della tradizione profetica dell'occidente) questo mostra, “significa” (bedeutet) che nessuno può vedere Dio senza morire. L'uomo, per penetrare nella foresta dei simboli, deve trasumanare. La classicità severa cui la pittura di Monica aspira sottintende questo nucleo vitale. E' il sacro (Heilig) il suo spazio privilegiato e intemporale. Era questo che intendevano i greci quando chiamavano i loro dèi i “beati”, “makaroi”. La beatitudine è la perfetta conoscenza del senso dell'enigma. Beatitudine e sacro costituiscono un valore centrale nella nozione di “classico”. E' l'esercizio consapevole della ragione minacciata dall'ombra del tempo, dal dolore. La forma è sovrana per la sua certezza in questa dialettica estrema. Il suo logos è forma di una visione credente. Quando il sacro (sacer) si mostra. Il sacro è potere della memoria, è forza di desiderio, rito. La connessione rituale, il cultus, denuncia nella sua etimologia, da colere, l'abitare. Chi abita un luogo lo consacra all'esistenza, allo strano ed unico silenzio delle cose che costituiscono quell'abitare. Sono le pure forme di quel nascere sacro che costituiscono l'essenziale alfabeto della pittura di Monica. Pochi segni bastano per farci intravedere la grammatica della speranza. La notte si confonde con la luce, l'inquieta distanza del paesaggio, vicina e poi lontana, come il teatro dell'isola di Prospero presto svanirà lasciando un'eredità d'assenza, il sonno che circonda la nostra “piccola vita”:


«[…] Il nostro spettacolo è finito. / Questi nostri attori, / Come ti avevo detto, / Erano tutti spiriti / E si sono dissolti nell'aria, / Nell'aria sottile. / E, come l'edificio senza fondamenta / Di questa visione, / Le torri ricoperte dalle nubi, / I palazzi sontuosi, / I templi solenni, / Questo stesso vasto globo, sì, / E quello che contiene, / Tutto si dissolverà. / Come la scena priva di sostanza / Ora svanita / Tutto svanirà / Senza lasciare traccia. / Noi siamo della materia / Di cui son fatti i sogni / E la nostra piccola vita / E' circondata da un sonno […]» (La tempesta, IV 1)3.


Così il teatro delle figure si rivela essere un Trauerspiel, alla lettera un gioco luttuoso, funesto. Esso prepara quello spazio che Heidegger in Tempo ed essere chiama la Lichtung, la “radura” che esprime l' attesa dell'essere. Nelle lingue ebraica, greca e latina, il sacro è ciò che è separato, l'assolutamente altro, rivelazione interiore del divino4. Esso è desiderio e perdita, perielio e afelio dell'oggetto. E' una pittura del prima: prima del tempo, prima del moderno, prima della fine…Com'era il mondo prima che gli dèi lo abbandonassero. Perciò l'oggetto esige di essere perduto per poter essere trovato. L'uomo e l'animale regnano insieme sulle cose, sono entrambi partecipi di un destino comune dell'essere. Essi sorvegliano i luoghi sono i testimoni del sacro.



Francesco Giardinazzo Primavera 1999



1 Sofocle, fr. 956 Pearson; cfr. G. Colli, La sapienza greca, 3 voll., Adelphi, Milano 1990, vol. I, p. 79.


2 «E semàinein è il termine proprio per “significare” (bedeuten). Qui abbiamo il collegamento con il logos di Eraclito. Anche il logos, il senso, semàinei, non parla univocamente come il nome ma neppure nasconde nulla, bensì c’è in quanto séma e “significa”. Questo logos è effettivamente simbolo del mondo, poichè anch’esso semplicemente c’è, indifferenziato e unitario, come l’universale»; B. Snell, Il linguaggio di Eraclito, a cura di B. Maj, Corbo ed., Ferrara 1989, p. 25.


3 W. Shakespeare, La tempesta, a cura di A. Lombardo, Garzanti, Milano 1995, ad. loc.


4 Cfr. R. Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1966.